lunedì 4 gennaio 2010

La vicenda II dramma dell'infermiera, e del paziente deceduto, è avvenuto nel reparto rianimazione del San Giovanni Bosco di Torino

ZANCAN NICCOLÒ

«La mia vita da infermiera assassina» Parla la donna accusata di aver ucciso un paziente a Torino: è stata scagionata
"ZANCAN NICCOLÒ" Accusata di aver aiutato un paziente a morire.
Una perizia la scagiona Piera Varetto [ In certi momenti sembra sorreggersi alla bottiglietta d'acqua che tiene sul tavolo, a fianco delle sigarette: «Non auguro neanche al mio peggior nemico di finire in questo tritacarne. Provo un grandissimo dolore inferiore, difficile da spiegare. In questi mesi ho ricevuto solidarietà, pacche sulle spalle, qualcuno mi ha detto: "Per fortuna è capitato a tè, perché io mi sarei sparato un colpo in testa". Credo che mi abbiano sopravvalutata: anche io ho pensato al suicidio, ne ho sentito forte il richiamo». L'infermiera Pierà Varetto lavorava all'ospedale San Giovanni Bosco di Torino, in una rianimazione all'avanguardia in Italia. È un reparto aperto, dove amici e familiari possono stare vicini ai pazienti ventiquattr'ore su ventiquattro. La sera del 14 agosto nella grande stanza piena di letti, tubi, monitor e speranze, c'era anche Sandro Lepore, un uomo tri ste di 42 anni. Aveva tentato il suicidio per la seconda volta. Era arrivato in ospedale pieno di psicofarmaci cinque giorni prima. Presto si era aggravato. La madre e la sorella erano «Avevo somministrato un anestetico nel giusto dosaggio, secondo la prassi» Indagata per omicidio volontario era stata allontanata dall'ospedale state avvisate: «Non c'è più nulla da fare». Ma l'ultimo pezzo di strada, per il paziente immobile nel letto numero 7, è stato ancora lungo e straziante. Con andate e ritorni. La macchina della respirazione ormai ferma. I medici che avevano ordinato di non broncoaspirarlo. Ma non riusciva a morire. Fino a un bolo di Propofol, un potente anestetico, somministrato dall'infermiera Varetto alle sette di sera. Per quella manovra è finita nei guai. E stata il direttore del reparto Carlo Alberto Castioni a firmare un esposto contro di lei. Riteneva che avesse somministrato un dose eccessiva e letale. Pierà Varetto è stata iscritta nel registri degli indagati con l'accusa di omicidio volontario, allontanata dall'ospedale. Ma ora una perizia ordinata dalla Procura la scagiona completamente. Non era un sovradosaggio. Non voleva uccidere. Seduta nello studio dell'avvocato Claudio Maria Papotti, racconta per la prima volta questi mesi tragici: «Ho sempre agito in scienza e coscienza. Non volevo che il signor Lepore avesse la percezione di quello che stava accadendo, volevo soltanto diminuire la sua soglia di sensibilità». Cosa succedeva al paziente del letto numero sette? «I parametri vitali si azzeravano, per poi risollevarsi. Era già successo quattro volte nel giro di cinque ore. Un'altalena continua. E questo andare e venire io lo vivevo con angoscia per i parenti. Perché Lepore era sempre più grigio, sempre più brutto a vedersi». Perché non doveva più essere broncoaspirato? «Ordine del primario. Così stabilivano le linee guida del protocollo Siiarti. Io non ero d'accordo. Gli ho detto: "È un'altra falce che ci cade in testa. Non è giusto. Se gli lasciamo il tubo è perché ha una funzione, quindi lo uso". Anche perché le secrezioni di muco formavano una specie di tappo, ed era di nuovo qualcosa che i parenti non avrebbero dovuto vedere e sentire: un rumore, un rantolo, il paziente che non riesce più a respirare». Qua) era il clima in reparto? «C'era qualcosa che non funzionava fra i medici, tensione. C'è stato un mo- mento stranissimo, in cui dovevamo fare una broncoscopia d'urgenza a IL CALVARIO «Sono finita in un tritacarne: ho pensato al suicidio Solo per una guerra di reparto» una ragazza di 24 anni - era nel letto 9 - ma nessuno mi dava risposta. Si rimbalzavano la competenza. Con Castioni c'è stata una discussione. Gli ho detto: "Non è tua, non è sua, mi dite cosa devo fare?"». Quando è morto Lepore? «Tré ore dopo. Correvo da un letto all'altro, lo vedevo in quello stato da molte ore. Gli ha fatto un bolo di Propofol, nel giusto dosaggio, come era prassi nel reparto». Perché è stata denunciata per una manovra che definisce ordinaria? «Credo di essere stata mercé di scambio in una guerra di reparto. Ho sempre detto quello che pensavo in faccia a tutti». Un carattere difficile? «Non credo, ho la casa piena di lettere di ringraziamenti e solidarietà. Però lo ammetto: ci sono colleghi dai quali non mi farei tagliare neanche le unghie dei piedi». Come è stato leggere la perizia che la scagiona? «Penso di aver urlato per un'ora. Ho dato l'anima per questo lavoro. Sono un'infermiera da vent'anni. Quell'accusa è stata un' infamia». Adesso come sta? «Ancora molto male, ho attacchi di panico. Mi sto curando. Non credo che riuscirò mai più a tornare in corsia». La L'episodio iúú II 14 agosto 2009 Sandro Lepore muore dopo cinque giorni di agonia al San Giovanni Bosco di Torino. Era considerato senza speranza. Ma l'esposto di un medico mette nei guai l'infermiera Pierà Varetto (foto): «Gli ha somministrato un bolo di tranquillanti». La procura indaga per omicidio volontario. I periti úú «Il Bolo di Propofol è stato effettuato da un'infermiera a cui tutti riconoscono competenza professionale e può essere interpreta come ulteriore tentativo di alleviare i sintomi del processo di morte». La difesa HUH L'avvocato Carlo Maria Papotti: «È stata accolta in pieno la nostra ricostruzione dei fatti e la linea di difesa proposta da subito».

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